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Discutere di sanità attraverso la storia

Discutere di sanità attraverso la storia

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(di Carlo Di Stanislao) – Gli storici della medicina hanno chiarito da tempo come l’impulso ad assistere il malato nasca da una pulsione primordiale dell’uomo ad essere solidale con un membro del proprio gruppo che soffre o che è in pericolo; l’assistenza è quindi l’espressione della solidarietà di gruppo. E poiché il gruppo di cui si ha la prima e più fondamentale esperienza è la famiglia, l’assistenza è rimasta per lunghissimi tempi un fatto essenzialmente privato. Con l’affermarsi del Cristianesimo, la sofferenza acquisisce un valore salvifico: di conseguenza, l’assistenza al sofferente diviene collaborazione alla salvezza e quindi opera meritoria di chi la esercita.

Ma l’opera di assistenza al malato resta un’azione di singoli a favore di singoli. Con la nascita degli stati moderni e gli sviluppi conoscitivi e tecnici della scienza medica prende inizio l’impegno dello stato in ambito sanitario. Tuttavia, come è ben dimostrato dalle cosiddette “poor laws” promulgate in Inghilterra negli anni trenta del XIX secolo, questi interventi rimasero in un primo tempo limitati alla pura assistenza discrezionale e di emergenza. Mentre, nel 1947, in Gran Bretagna il governo Attlee dà corpo organico alla diritto alla tutela della salute, istituendo il Servizio Sanitario Nazionale  (NHS, National Health Service), in Italia prosegue la politica di sviluppo della protezione assicurativa-providenziale contro le malattie e gli infortuni.

Con altre leggi sono istituiti numerosi enti mutualistici per varie categorie di professionisti: pensionati dello stato (1953), coltivatori diretti (1954), artigiani (1956), commercianti (1960), ai quali si aggiungono un’altra miriade di enti minori come, ad esempio, la Cassa nazionale di previdenza e assistenza per gli impiegati agricoli e forestali e l’Istituto di previdenza e mutualità tra i magistrati. Come se ciò non bastasse, continuano a proliferare piccolissime realtà mutualistiche di fabbrica o di azienda. Ciò determina l’apparire di forme assistenziali profondamente diverse tra loro, incontrollabili sia sotto il profilo della qualità delle prestazioni erogate sia della spesa sanitaria. Sino alla legge 23 dicembre 1978 n. 833, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, la legislazione dello Stato, sia pure in modo non rettilineo e incontrando ostacoli piuttosto pesanti, non essendo stata emanata una legge quadro di principi, imbocca la strada del trasferimento alle Regioni delle competenze in materia di sanità, cercando contemporaneamente di chiudere il problema rappresentato dall’enorme situazione debitoria nella quale versano gli enti mutualistici. vale la pena di rilevare che, fino al 1970, le Regioni autonome non giocano alcun ruolo nel settore socio sanitario.

Friuli Venezia Giulia e Sardegna non emanano leggi, la Sicilia promulga nel 1949 una timida leggina che istituisce le unità ospedaliere circoscrizionali, il Trentino Alto Adige (che si è reso protagonista dall’adozione di alcune leggi di costituzione di “casse malattia”) e la Valle d’Aosta verso la fine del 1969 approvano ed emanano leggi in applicazione della legge 132/68. Ciò dimostra che solo con l’istituzione delle Regioni a statuto ordinario si avvia effettivamente l’azione di decentramento amministrativo e di regionalizzazione dello Stato, come previsto dalla Costituzione. Negli otto anni (1970 – 1978) ante riforma, le Regioni a statuto ordinario, le altre almeno in termini amministrativi avevano già largamente superato il rodaggio, si impegnano nella costruzione e nel consolidamento interno all’ente.

La legge 23 dicembre 1978 n. 833 costituisce il corollario o, per meglio dire, il punto normativo terminale di un progressivo lavoro di straordinaria modificazione dell’organizzazione sanitaria nel nostro Paese., con la istituzione di Un Servizio Sanitario Nazuionale che, tra alti e bassi, è tutt’oggi ai primissimi posti secondo l’OMS. Il 23 ottobre 1992 è emanata la legge 421 “Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale”. E’ un provvedimento importantissimo, nel quale sono contenuti i principi informatori della Riforma dello Stato, e dal quale, tra gli altri, scaturisce il decreto legislativo 23 dicembre 1992 n. 502, modificato dall’altro 7 dicembre 1993 n. 517.

Poi, il 30 novembre 1998 viene promulgata la legge n. 419 “Delega al governo per la razionalizzazione del Servizio Sanitario Nazionale e per l’adozione di un testo unico in materia di organizzazione e funzionamento del Servizio Sanitario Nazionale. Modifiche al decreto legislativo 30 dicembre 1992 n.502”, a cui fa seguito il decreto legislativo 19 giugno 1999 n. 229 “Norme per la razionalizzazione del Servizio Sanitario Nazionale, a norma dell’articolo 1 della legge 30 novembre 1998 n. 419”, i cui cardini sono costituiti dalla esclusività del rapporto di lavoro per i medici e dal potenziamento del ruolo del territorio e della formazione. In un presente di difficile decifrazione, sembra essere  in ogni modo certo che non esiste nel nostro Paese forza politica, economica e sociale convinta ed interessata a far regredire la società sul diritto alla tutela della salute. Molte sono state le proposte di modifica della Costituzione, alcune anche approvate, nessuna ha riguardato l’articolo 32. In generale, il dibattito si incentra soprattutto sulla individuazione e riorganizzazione dei livelli delle competenze e delle responsabilità.

In discussione, quindi, torna regolarmente l’applicazione del “principio di sussidiarietà”, che costituisce l’elemento fondamentale del federalismo. Tale principio può trovare puntuale attuazione solo in un quadro di collaborazione e di riconoscimento (che non nega la conflittualità di merito) tra i vari livelli in cui si articola lo Stato. Nello specifico, la salvaguardia del diritto alla tutela della salute non si configura in modo statico e sembra difficile non tenerne conto. In questi ultimi anni, nei quali i progressi sono di una tale intensità e velocità da sorprendere la stessa comunità scientifica internazionale, l’attuazione del diritto è impresa ancora più ardua. Di questi ed altri temi, di cruciale importanza non solo tecnica ma cruciale, si parlerà il prossimo 16 settembre, presso l’Aula Magna Paride Stefanini della Focoltà di Medicina e Chirugia della’Università de L’Aquila, nel convegno nazionale ”150 anni di Sanita’ pubblica in Italia”, organizzato dall’Universita’ degli studi dell’Aquila, in collaborazione con l’Ordine dei medici chirurghi e degli odontoiatri e con l’Ipasvi (Federazione nazionale Collegi infermieri) della provincia dell’Aquila, sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica ed il patrocinio del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati.

”Tra le tante iniziative celebrative dei 150 anni dell’Unita’ d’Italia – ha precisato il rettore dell’Ateneo aquilano, Ferdinando di Orio – non poteva mancare una specificatamente dedicata al sistema della Sanita’ pubblica nazionale che, in tutta la sua complessa evoluzione storica, ha rappresentato uno dei principali elementi che ha reso possibile il processo di unificazione culturale e di aggregazione sociale del nostro Paese”. Al’iniziativa parteciperà il prof. Giuseppe Armocida, presidente della Societa’ italiana di Storia della Medicina, che animerà i vari interventi assieme a  studiosi provenienti da diverse Universita’ italiane. ”Il convegno – ha sottolineato il Rettore- potra’ fornire un contributo in piu’ nella resistenza culturale a tutte quelle correnti di pensiero, politicamente trasversali, che oggi vorrebbero lo smantellamento del sistema di welfare nel nostro Paese, a partire dal sistema sanitario pubblico, che ne costituisce invece l’elemento piu’ significativo proprio in quanto strumento in grado di far elettivamente convergere saperi, competenze e tecnologie al servizio del bene comune”.

Credo che l’evento consentirà anche di discutere l’ultima tabella Censis, che vede l’Italia come un Paese che ha una sanità che marcia con due diverse velocità, fra nord e sud, e di individuarne le cause, anche alla luce del fatto che,  nei prossimi anni la situazione è destinata a cambiare nella direzione di un deciso aumento della quota di over 65 nel Sud, fatto che, modificando i bisogni di salute della popolazione, renderà necessaria una inversione di tendenza negli standard qualitativi. In effetti, il compendio SIC – Sanità in cifre 2009 elaborato dal centro studi SIC di FederAnziani in collaborazione con il Ceis di Tor Vergata e l’Università Cattolica del Sacro Cuore, ci dice che, nel 2010, si sono effettuate in Italia sino sono effettuate oltre 1 miliardo e 300 milioni di prestazioni sanitarie annuali, circa 22 a testa, oltre 12 milioni di ricoveri, per un totale di 76 milioni di giornate di degenza in un solo anno.

A fronte di ciò la spesa sanitaria corrente è costantemente cresciuta negli ultimi dieci anni, passando da 52,2 miliardi di euro nel 1996 a 98,7 miliardi nel 2006. In un servizio sanitario che riduce i posti letto, la spesa er il personale dal 1998 al 2008 è costantemente cresciuta, con un aumento in 10 anni di 11,8 miliardi di euro, pari a oltre il 50%. Ora emerge, in tutte le cosietà scientifiche e alla luce della storia stessa della sqanità (non solo italiana), che, per ovviare a spesa crescente e risorse limitate, occorrerà garantire una buona qualità della vita piuttosto che allungarne la durata.  Non sono rari i casi di pazienti in lunga degenza tenuti in vita da farmaci che in lenta progressione inesorabilmente ne riducono le attività fino a consumarli con una inutile lenta sofferente agonia.

La vita media in salute negli ultimi 50 anni è rimasta costante, la vita media dei malati si è invece allungata di 6-7 anni e qu8esto non va neklla direzione di una sanità efficiente o efficace. E’ ormai risaputo, dal momento che parlare di Sanità significa sempre di più chiedersi: “quanto costa” quel servizio, quel medico, quell’operazione, quell’analisi o quel posto letto (spesso da tagliare). Ma il motivo di questo monitoraggio tormentato dei costi c’è, e non va ricercato solo nei conti inesorabilmente in rosso con cui gli amministratori continuano a litigare. La spiegazione è più semplice, e nasce da una riflessione sul dossier pubblicato recentemente dall’Assr (Agenzia per i Servizi Sanitari regionali) relativo ai bilanci delle 98 Aziende Sanitarie ospedaliere del nostro Paese. l balletto delle cifre continua: il costo di un ricovero pare essere aumentato in media in Italia (dal 2000 al 2001) di 153 euro.

Ma come mai – puntando la lente di ingrandimento sulle singole regioni – il valore medio di un singolo ricovero si aggira sui 4.994 euro nel Lazio (la regione in assoluto con le mani all’apparenza più bucate), scende a 4.482 euro in Piemonte (secondo posto in classifica) fino ad arrivare ai 3.227 euro della Lombardia e infine ai 2.554 euro della Sicilia? Eppure il numero massimo di giornate (relative al ricovero medio) è stato registrato al Cto di Torino (questa volta con una certa ragione), dove si arriva a 12,33 giorni, seguito dalle Molinette di Torino (11,57 giorni) e via via da tutte le altre aziende ospedaliere, fino ad arrivare all’ospedale siculo Gravina (4,46 giorni) e toccare il minimo con il campano Santobono (3,38 giorni). Inutile parlare poi del costo medio per posto letto, che oscilla tra i 208.045 euro delle Marche ai 196.772 euro del Piemonte, per arrivare ai 142.258 euro della Lombardia e infine ai 137.336 euro della Liguria. Come non citare infine la spesa media per unità di personale (medici, infermieri, ostetriche, tecnici, amministrativi…)?

Si passa dagli alti costi medi procapite del S. Antonio Abate (52.038 euro) al SS. Annunziata pugliese (51.899 euro), fino ad arrivare ai 50.897 euro del Di Summa di Brindisi e scendere a picco al toscano Careggi (34.822 euro), toccando il minimo al lombardo Morelli Sondalo (31.755 euro). Su questio ed altri temi occorrerà fare ordine e chiarezza, ricordando poi che la sanità non è solo un fatto economico. E dovranno essere gli esperti a stabilire linee-guida, attraverso confronti come quello aquilano, per offrire ai politici soluzioni qualitativamente e quantitativamente sostenibili. Il contrario porta a guasti e scompensi come quelli che vediamo, giornalmente.

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