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Riunirci al passato. La lezione “naturale” di Franco Cagnoli

Riunirci al passato. La lezione “naturale” di Franco Cagnoli

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(Di Carlo Di Stanislao) Partire da Esopo per farne altro, mescolando la favolistica apolegetica abruzzese (la sua Regione), con una narrazione che ricorda gli autori “ underground” ed il “flusso di coscienza”.

Questo ha fatto il giovane Franco Cagnoli nel suo “La cicala. (Sogno di una notte di pieno inverno)”, viaggio morale in una natura incontaminata e compresa attraverso le parole del nonno, che lo porta a parlare con cicale e formiche e con erba, alberi ed animali, che gli disvelano i segreti della vita.

Al centro del racconto, dicevamo il nonno, l’avo, l’antenato, figura che impersona l’esperienza e la saggezza, come nella cultura tipica del Sud d’Italia, come nel “mos maiorum” latino, con una vicenda fatta di precetti normativi poiché investiti di un auctoritas capace di creare una personale visione del mondo e delle cose.

Il racconto di Franco Cagnoli, sorprende come esempio di talento genuino e fascinoso, è un lungo viaggio alla ricerca delle origini, in una natura ricca di memorie, in cui si cerca l’essenza dei paesaggi e dei passaggi, un viaggio in un sapere antico, in una recuperata comunione con la natura, in cui si intravede l’ansia di chi comprende che solo il passato può restituire sostanza e centratura (soprattutto dopo un terremoto distruttivo) ed è anche il modo migliore per osservare il divenire delle cose.

Nel giovane autore una sorta di pervasione manista, con l’Antenato elemento centrale di tutte le manifestazioni rituali e celebrative, lampada sempre accesa per illuminare il cammino, esso stesso sentiero da seguire e da vivere attimo dopo attimo, insegnamento dopo insegnamento.

Franco Cagnoli, con questo libro, con la sua esperienza di poeta e musicista, ma anche di persona che è tornata a coltivare la terra, non limitandosi ad ammirarla da lontano, ci ricorda che questo lavoro, fatto di duro rispetto, è un’arte analoga come quella di coltivare le parole o le note musicali per suonare o raccontare, perché è adesso il momento di mettere insieme il lavoro della Formica con il canto della Cicala, che è anch’esso lavoro, e insieme formare un grande patrimonio comune, che sappia immagginare un futuro che sia in sintonia con il passato.

Alla prssentazine del libro, lo scorso 12 aprile, il meglio della intellettualità aquilana: Roberto Ciuffini, Liliana Biondi, Daniele Kihlgren e Tiziana Irti, con il Mupac di via Ficara che grondava emozioni e richiami continui alla letteratura di grandi legati alla cultura degli antenati: Calvino, Pavese, Rilke.

Leggendo il libro mi sono tornati alla mente versi di un canto Navajo, che dicono:  

Con il cuore colmo di vita e di amore camminerò.
Felice seguirò la mia strada.
Felice invocherò le grandi nuvole cariche d’acqua.
Felice invocherò la pioggia che placa la sete.
Felice invocherò i germogli sulle piante.
Felice invocherò polline in abbondanza.

Felice invocherò una coperta di rugiada.
Voglio muovermi nella bellezza e nell’armonia.
La bellezza e l’armonia siano davanti a me.
La bellezza e l’armonia siano dietro di me.
La bellezza e l’armonia siano sotto di me.
La bellezza e l’armonia siano sopra di me.
Che la bellezza e l’armonia siano ovunque,
sul mio cammino.
Nella bellezza e nell’armonia tutto si compie.

Riflettendo ora sul testo, credo che da Esopo il giovane autore abbia preso (attraverso gli insegnamenti “naturali” del nonno) l’idea dell’origine della sofferenza, che nella mentalità più arcaica si definiva hýbris (in greco βρις), ‘accecamento mentale che impedisce all’uomo di riconoscere i propri limiti e di commisurare le proprie forze: chi ha ambizioni troppo elevate e osa oltrepassare il confine posto dagli dei pecca di hýbris e incorre in quella che viene chiamata “invidia degli dei” (in greco φθόνος θεν, fthònos theòn), una divinità “invidiosa” del potere umano e, come tale, determinata ad abbatterlo con prepotente capriccio.

Da qui, la causa della sofferenza umana.

Ma, nel suo racconto, solo in apparenza semplice e piano, Cagnoli giunge a rinunciare a questa teoria e mostra invece come le azioni delle divinità (attraverso la natura) sugli uomini non sono prodotte da semplice invidia, ma sono conseguenze edificanti di una colpa umana, in quanto gli dei (la natura e gli antenati) sono assoluti garanti di giustizia e di ripristino dell’ordine, e dunque alla hýbris corrisponde sempre il saggio ammaestramento divino, attraverso la punizione.

Giustizia (in greco δίκη, dìke), insomma, è la legge che gli dèi e la natura impongono al mondo e che spiega la casualità degli avvenimenti, apparentemente inesplicabile, regolando con bilance esattissime la colpa e la punizione, rivelandosi allora come un immanente ingranaggio che non lascia scampo a chi si è macchiato di una colpa o a chi eredita una colpa commessa per prima dai propri antenati.

Ed è chiaro, così, che alla luce della funzione edificante della punizione attraverso il dolore, che ogni uomo è destinato a soffrire, egli matura la propria conoscenza (πάθει μάθος, pàthei màthos) e si rende conto, dell’esistenza di un ordine perfetto e immutabile che regge il mondo e si rifletev nella natura.

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