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A Roseto si prepara il finale

A Roseto si prepara il finale

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(Carlo Di Stanislao) Si chiude stasera con “Salvo” il concorso Roseto Film Festival “Opera Prima”. Domani sera, alle 21,30, vi sarà la proclamazione del film vincitore e, a seguire, la proiezione di “Il Postino”, capolavoro di Michael Radford (nascita a Nuova Delhi, padre inglese e madre ebrea), indissolubilmente legato alla fine prematura (12 ore dopo la fine del montaggio), di Massimo Troisi, elegia sull’amicizia e sull’amore, tratta dal romanzo “Neruda e il postino” di Antonio Skàrmeta (cileno, figlio di emigranti italiani, ambasciatore del Cile in Germania dal 2000 al 2003), girato nelle splendide Procida e Salina, circondato da un’aura magica che ha fatto di questa pellicola un caso unico, elogiato da critica e pubblico, tanto apprezzato all’estero da portare il nome di Massimo Troisi nell’olimpo della cinematografia mondiale con una candidatura postuma all’ Oscar come miglior attore protagonista ed un totale inatteso di 5 candidature all’ambita statuetta (che fu vinta la migliore colonna sonora da Luiz Bacalov).

Un inno alla forza della poesia, al potere delle parole in grado di elevare personaggi a prima vista insignificanti a ruoli del tutto inattesi, con le immagini finali, su Neruda/Noiret che ritorna dopo cinque anni in Italia, e ricorda, passeggiando sulla spiaggia, le ultime parole registrate dall’amico che mai davvero si era sentito abbandonato,  quel primo piano interminabile sul volto dell’attore francese da cui traspare l’incapacità di comprendere una morte tanto assurda quanto improvvisa, sono per lo spettatore ancora oggi emozionanti in quanto quello sguardo sbigottito ed incerto ben si prestava e si presta tanto a cercare di dare un senso alla morte del protagonista quanto a quella del personaggio reale.

Avere questa copia in proiezione quale chiusura della XVIII edizione del festival rosetano è stata impresa difficile, poiché la compagnia di distribuzione è fallita 12 anni fa e trovare il modo di superare la burocrazia per poter mandare la pellicola sulla schermo ha impegnato non poco gli organizzatori: comune di Roseto, Assessorato al Turismo e direzione artistica, composta da Tonino Valerii con l’ausilio di Mario Giunco.

Dicevamo del romanzo di Skàrmeta, scritto nel 1985 e pubblicato da Garzanti quattro anni dopo, con finale completamente diverso e molto più amaro, con il poeta protagonista che cerca di richiamare alla memoria una poesia del postino Mario ma non vi riesce.

Dal 2005 Skàrmeta pubblica per Einaudi ed è appena uscito per l’editore torinese (orma gruppo Mondadori), “I giorni de l’arcobaleno”, in cui ci regala, mescolando con penna delicata e sensibile, realtà storica e invenzione romanzesca, un apologo sulla libertà e la speranza.

Tornando ad “Opera Prima”, dopo le commedie agrodolci “Ci vediamo domani” e “Tutti contro tuti”, la cupa disperazione di “RazzaBastarda”, la profonda riflessione fra contenuti interiori e vita reale di “La città ideale” e la sensibile riflessione su vita e morte di “Miele”, è la volta del film-esordio del duo palermitano Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, sceneggiatori e per anni consulenti per alcune società di produzione italiane come Filmauro e Fandango, che in coppia avevano già firmato il cortometraggio “Rita” e che con questo film hanno vinto a sorpresa il Grand Prix e i il Prix Révélation alla 52° Semaine de la Critique di Cannes, che, distribuito in soli 40 copie (per fare un raffronto sono 700 le copie di “Vacanze di Natale a Cortina” di Neri Parenti), ha dovuto guardare all’estero per vedere la vita, con i due produttori, Massimo Cristaldi e Fabrizio Mosca, che hanno trovato in Francia la sponda giusta, con diverse fonti di finanziamento.

Film di grande qualità, ben al di sopra del pattume medio della produzione italiana, ha una sequenza d’avvio velocissima e procede in stile noir francese mescolando Melville a Besson, ma con rimandi allablack commedy, agli spaghetti western e al cinema di Kitano, liberandosi sin da subito dall’immagine obsoleta di tante fiction e da vari b-movie ambientati in Sicilia, per ridare ai luoghi colonizzati da arabi e greci secoli e secoli fa la loro dignità di terre che sono state culla di cultura e di filosofia, quella filosofia che ancora oggi permea il linguaggio aulico dei malavitosi, incarnazione di una malvagità imperscrutabile e malata che qui si fa paradossale.

Si tratta di un film di corpi aggrediti dallo spazio di mani che toccano superfici che non conoscono, di teste martellate da discorsi assurdi e da rumori amplificati che finiscono per assordare, con una comunità regolata da gerarchie e rituali che si muove in una Palermo dove l’esigenza di un tiranno è primordiale e cui si oppone il prodigio dell’incontro fra due cecità: quella fisica di una ragazza di nome Rita e quella morale del killer dagli occhi di ghiaccio Salvo, che innamorandosi cominciano ad accorgersi dell’orrore che li circonda.

Sarà anche un caso che Grassadonio (il cognome di uno degli autori) si chiama il protagonista di “La città ideale” di lo Cascio ed anche che la chiusa sia a Palermo, dove tutto il fango brilla in superficie, non come nella apparentemente perfetta Siena.

Ma siccome i casi nel cinema solo significativi, anche qui la storia è ricerca etica ed apologo, attraverso uno sceneggiatura frutto di un lungo lavoro che ha portato a versioni sempre più dettagliate in cui venivano annotati anche i minimi movimenti di macchina, una storia di Mafia che parla il linguaggio dei grandi generi cinematografici e incrociando la tradizione francese e americana all’epicità e all’ampio respiro del cinema orientale più rarefatto, riesce ad avvincere e far pensare.

Molto bravi i due protagonisti: Saleh Bakri, che non essendo siciliano (né italiano), rende il suo personaggio archetipico e straniante e Sarah Serraiocco (22 anni, di Pescara), che negli occhi accecati da lenti oscurate ha saputo esprimere l’angoscia di un animale braccato (anche qui uno strano rimando ai disegni di “cattura” presenti ne “La città ideale”).

Magnifica la fotografia di Daniele Ciprì, ideatore, in coppia con F. Maresco, tra gli anni ’80 e ’90, della serie Cinico Tv, regista di film di vena grottesco-surreale come Lo zio di Brooklyn e Totò che visse due volte, e che, come direttore della fotografia,, ha illuminato i molto originali film di che suscita scalpore, reazioni oscurantiste e pruriti censori. Come direttore della fotografia lavora anche a due film di Roberta Torre, Tano da morire e Sud Side Story.

Ha anche lavorato alla fotografia degli ultimi film di Bellochio e, lo scorso anno, ha presentato a Venezia il suo ultimo film, “E’ stato il figlio”, tratto da un romanzo di Roberto Alajmo, in cui ha riportato l’estetica “trash” della fortunata serie televisiva firmata con Maresco, illuminando da vero campione personaggi deragliati in una periferia di surreale desolazione, immersi negli spazi stranianti di una periferia palermitana ricostruita in Puglia, tra file di palazzoni anonimi, interni e vicoli angusti, navi arrugginite alla deriva sulla costa. Una messinscena antirealistica, con improvvise derive oniriche cui fa da contrappunto la fisicità del protagonista (Tony Servillo), che sembra uscito dal repertorio della vecchia commedia all’italiana.

Considerando il livello delle sei opere in concorso a Roseto, sarà dura trovare un solo titolo da ed il compito alla giuria e, composta da elementi espressione di fascie cronologiche e culturali differenti, avrà molto da dibattere e lavorare.

Comunque vadano le cose, a me resta la soddisfazione di aver veduto, per la quarta volta, l’Istituto Cinematografico de L’Aquila al centro della scena (vi tornerà, a fine agosto, per il Vasto film Festival e, a ottobre, per un evento su “Acqua bene pubblico” e la terza edizione di “Frammenti di donna”, con l’intermezzo cittadino delle tre classiche proiezioni, il 26, 27 e 28 agosto, per la Perdonanza Celestiniana); oltre alla soddisfazione non di poco conto della presidenza di una giuria che si è mostrata attenta, appassionata e competente.

E mi resta la convinzione che ancora del buon cinema in Italia è realizzabile, intendo un cinema fatto di film che accendano il cervello, la mente e il cuore e meno i portafogli dei produttori, capaci di riportare nelle sale un pubblico sempre meno attento, abituato a commedie bassissime o chiuso in casa davanti a reality e fiction.

Insomma un pubblico capace di comprendere quello che Alain Badiou scrive in “Del capello e del fango. Riflessioni sul cinema”: “Il cinema si radica per sempre nel gusto di tutte le classi, di tutte le età e di tutte le nazioni, per mostrare lo spettacolo del potente che viene ricoperto di sterco da un vagabondo; di un’enorme nave che affonda, di un mostro spaventoso emerso dalle profondità della terra; del Buono che, dopo innumerevoli vicissitudini, uccide in pieno sole il Cattivo; del poliziotto che acciuffa il ladro malavitoso; dei bizzarri costumi degli stranieri e dei cavalli nella pianura”.

Ciò che mi riporto più forte nella esperienza rosetana, è la convinzione che al centro del buon cinema vi è il superamento (come,in campo filosofico, in Schopenhauer, Nietzsche, Freud, Kierkegaard e Heidegger), del primato della ragione intellettiva nel processo di percezione del mondo e, nonostante le apparenze, una sorta di diffidenza (come in Platone), per il mondo fenomenico così come ci viene immediatamente dato attraverso i sensi.

E tutto attraverso una festa che sia, comunque, narrazione e spettacolo contaminato, meta-arte che le contenga tutte: scrittura, pittura, scultura e via dicendo.

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