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Andate e ritorni al cinema

Andate e ritorni al cinema

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(Di Carlo di Stanislao) Una carriera lunga 25 anni, con soli 4 film, ma tali farne l’unico, nel cinema nostrano, con vera vocazione brechtiana (come ha detto Franco Fortini) e anche “il matto di cui il cinema italiano a bisogno” (secondo Fellini, di cui fu aiuto in “Il bidone”).
Tutto ha inizio nel 1960, l’allora giovane Augusto Tretti, con la copia del suo primo film in mano, La legge della tromba, che cala a Roma e organizza una proiezione per la critica. Riceve giudizi per una volta unanimi, ovviamente negativi, ma per sua fortuna Moravia lo invita a far vedere il film ai registi, non ai critici e grazie a questa intuizione esplode a Roma come un marziano sceso dal Veneto (era nato a Verona nel 1924) subito adottato da Fellini, Flaiano, Antonioni, Tonino Guerra e molti altri, che si prodigano per consentirgli di girare un altro film con una struttura produttiva alle spalle.
La Titanus, grazie a Goffredo Lombardo, che dopo aver accettato di distribuire quel primo, svagato film, gli fa firmare un contratto per un nuovo film, che vedrà la luce, fra molte dissavventure dieci anni dopo: Il potere, inizio e fine di una carriera, ispirata da una passione sfrenata per il cinema e da un talento che solo i geni del cinema hanno saputo veramente apprezzare.
Gira poi su commissione Alcool e il cortometraggio per la Rai Mediatori e carrozze e, dal 1985 si ritira, incompreso a Lazise, sul lago di Garda, dove è morto venerdì, dopo essere stato ricordato al Festival di Venezia di due anni fa, in un documentario intitolato La legge di Tretti, diretto dal poliedrico scrittore, storico e giornalista Ugo Brusaporco e dal giovane filmmaker Matteo Ierimonte, un omaggio lirico ed ispirasto ad un profeta surreale, ironico, amaro, che ha messo alla berlina i poteri forti e le connivenze politico-religiose che strozzavano la nazione, scoperto da Fernanda Pivano, che lo introdusse nei salotti milanesi e continuò a credere il lui, come altri, nella indifferenza generale di critica e di pubblico.
Quel documentario l’ho visto a novembre di 2 anni fa, al X convegno di Storia del cinema italiano, un pre-montaggio, più breve di circa venti minuti rispetto a quello che dovrebbe essere il prodotto finito e l’ho trovato magnifico.
Tretti è un caso esemplare di rimozione, rimozione che non è il frutto di un’incolpevole distrazione, ma un gesto calcolato e ben ponderato di censura, poiché la rimozione non è mai una svista, una dimenticanza, specie per un film come Il potere, che difficilmente passerebbe inosservato.
Un caso esemplare di vera e propria censura preventiva, che la politica ha esercitato sul cinema ridotto a puro intrattenimento e divenendo esso stesso strumento per narcotizzare ed ottenere il consenso, servendosi oltre che della televisione e della stampa, anche di tutti quegli apparati su cui si regge il sistema reazionario dello spettacolo in Italia: i produttori e distributori affaristi, i funzionari dei ministeri e perfino i festival della mondanità più insulsa e della vacuità dei premi.
Dopo il suo ultimo cortometraggio, nel 1985, con la fierezza e la determinazione di chi rifiuta qualunque tipo di compromesso, Tretti ha lasciato il cinema per tornare ad occuparsi della sua azienda agricola sul Garda. Da allora, salvo rare e preziose occasioni, i suoi film sono diventati sempre più invisibili. Il nostro ad ì essere visti ed apprezzati dal pubblico, che certamente non resterebbe indifferente di fronte alla comicità grottesca e al tempo stesso attuale che lui sa mettere in scena.
Per quanto ci riguarda, come Istituto Cinematografico, certamente, in collaborazione con il MeSva della Università de L’Aquila, presenteremo, nell’ambito della rassegna 2013-2014 di CineMedicine, il suo docu-film (voluto dalla Scuola di Ermanno Olmi), Alcool, in cui il fenomeno dell’alcolismo è descritto con forte capacità evocativa è critica, una abitudine nefanda maggiormente diffusa anche per colpa della pubblicità ingannevole che attribuisce all’alcool delle proprietà quasi magiche e che gli permette quindi di essere utilizzato come pillola per il male di vivere.
Per un grande che se ne va, dimenticato, una grande arriva, dopo un ventennio di silenzio: Barbara Steele, diva dark di film come La maschera del demonio di Bava, Lo spettro di Riccardo Freda , Danza macabra di Antonio Margheriti, diva indiscussa del cinema di paure e incubi degli anni sessanta e settanta, che, tornata ad Hollywood per crescere il figlio e dopo un drammatico divorzio dallo scrittore Jamos Poe, divenne produttrice di serial televisivi, perdendo però il gusto della interpretazione.
Ora l’italo-americano Jonathan Zarantonello l’ha convinta ad interpretare un ruolo complesso, simile a quello di Norma Desmond in Viale del tramonto, grazie ad un copione intrigante, tratto dal suo romanzo Alice dalle 4 alle 5, in cui sarà una anziana signora ossessionata dalla sua collezione di farfalle, che instaura con una fanciullina dall’inquietante bellezza una strana amicizia ed un distorto rapporto madre-figlia.
La lavorazione del film è a breve: una storia americana ma di stile e contenuti europei, con precisi riferimenti a Bava e Freda, ma anche a Tarantino e Tim Burton.
Classe 1958, inglese di nascita, Barbara Steele venne ingaggiata dalla Rank Organisation per interpretare piccoli ruoli, fino a quando il suo contratto vinne ceduto alla 20th Century Fox che la portò ad Hollywood, dove, dopo 2 anni di quasi non lavoro, approfitta quindi di uno sciopero degli attori per accettare un ruolo in Italia in un film horror di un giovane regista al suo esordio, Mario Bava, cosa che si rivela essere un vero e proprio successo ed un trampolino di lancio per lei che in breve diviene il simbolo del cinema Gotico con il suo viso inusuale, i lunghi capelli corvini e gli immensi occhi penetranti, continuamente chiamata ad interpretare ruoli da protagonista in pellicole horror, come Il pozzo e il pendolo (Roger Corman, 1961), L’orribile segreto del Dottor Hitchcock (Riccardo Freda, 1962), Lo spettro (Freda, 1963), Danza Macabra (1964) e I lunghi capelli della morte (1965), entrambi per la regia di Antonio Margheriti, Amanti d’oltretomba (Mario Caiano, 1965), 5 tombe per un medium (Massimo Pupillo, 1965), Un angelo per Satana (Camillo Mastrocinque, 1966).
Contemporaneamente recita in diversi film memorabili fuori dal genere, come 8 ½ (Federico Fellini, 1963), Le voci bianche (Pasquale Festa Campanile e Massimo Franciosa, 1964) e L’armata Brancaleone (Mario Monicelli, 1966).
Negli anni ’70 lavora principalmente in America: Femmine in gabbia (Jonathan Demme, 1974), Il demone sotto la pelle (David Cronenberg, 1975), Piranha (1978), per la regia di Joe Dante (che appare in The butterfly room in un gustoso cameo), Pretty Baby (Louis Malle, 1978), The silent scream (Denny Harris, 1980).
Come produttrice tv ha vinto tre Golden Globe e un Emmy Award per la serie The winds of war (1983) e War and Remembrance (1988), entrambe dirette da Dan Curtis e nel 1991 è tornata, come produttrice e protagonista, al genere horror con la serie cultoo Dark Shadows (sempre diretta dal fido Dan Curtis).
Adorata da Tim Burton e da Clive Barker, che le dedica la voce “M” (Mistress of the night) del documentario A-Z of Horror (1997), ora finalmente la rivedremo, non troppo invecchiata icona di sfiorita bellezza eterea, pallida e ineffabile, con ancora una sensualità ambigua che è il canone estetico centrale del gotico al cinema.

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