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Scavare nel padre per incontrare se stessi

Scavare nel padre per incontrare se stessi

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(Di Carlo Di Stanislao) Vale la pena chiedersi se non siamo tornati o comunque vi sia una lenta tendenza di “ritorno ai padri”, in funzione di avvicinamento o recupero, ancorché tardivo. Una rivalutazione della loro figura (e persino funzione) dopo gli anni cruenti di una loro messa in discussione o aperta contestazione da parte di una generazione di figli, nella fattispecie quella della fatidica “annata 1968”? Una generazione già maggiorenne e certo vaccinata, che nell’anno della “fantasia al potere” si trova o all’ultimo anno di liceo o è appena entrata all’università. Certo, se due coincidenze fanno un indizio, tre sono decisamente una prova. Tantopiù se si parla di figure di intellettuali come Lerner, classe 1954, Albinati 1956, Magrelli e Stille 1957, che nell’anno fatidico della contestazione avevano 14, 12 e 11 anni, forse troppo pochi per essere intaccati dal virus della rivolta antiautoritaria e della messa in discussione dei ruoli e della figura paterna, ma che pur tuttavia a quella linfa negli anni successivi hanno in qualche misura continuato ad attingere.
Diverso il caso dei Trevi, Emanuele nel ’68 ha appena 4 anni, il padre Mario di anni ne ha quaranta di più, 44, che, nel 2007, danno alle stampe “Invasioni controllate” (Castelvecchi), una una conversazione pacata, curiosa e riflessiva, molto diversa dai libri recenti di Albuinati e, soprattutto, di Magrelli.
Operazione difficile quella di Valerio Magrelli, a metà fra riscrittura e superfetazione, fra prosa e poesia, diaristica ed analisi. Finalista al Super Mondello, “Geologia di un padre” (Einaudi), è un romanzo sui generis, che rievoca un addio tanto doloroso quanto liberatorio, “bandolo canoro di un’infinita matassa di storie”, diviso in 83 capitoli, tanti quanti gli anni del padre, figura guerriera, rabbiosa e dolcissima, un dio fragile ed interamente da assolvere e recuperare dopo la morte, attraverso foglietti sparsi ed appunti, che sono pretesto per guardarsi dentro. Un libro che si legge d’un fiato, ma che vuole essere riletto, per coglierne le infinite sfumature del tessuto, linguistico ed emotivo. Come ha notato Livio Borrelli, a maggio, all’uscita del romanzo, Magrelli riesce a descrivere la figura paterna tenendosene sempre sull’orlo metafisico, sul ciglio, riuscendo, per la prima volta, a descrivere una psicologia in tutta la sua insondabile vertiginosità, proprio perché viene a coincidere che una psicologia con quel limite del mondo che è un io, quello del figlio che, per raccontarla, si sovrappone e identifica ad essa. Dice bene Franco Buffoni: ad una lettura attenta, “Geologia di un padre” si rivela essere non solo il libro di narrativa più profondo e complesso del poeta di “Nature e venature”, ma anche in qualche misura il suo “testamento”, dove, tra le righe, si può cogliere questo semplice pensiero: se io, Valerio, sono così oggi, è perché sono figlio di Giacinto, anche se mi è stato spesso difficile accettarlo. Questo romanzo, in un susseguirsi di elementi eterogenei, pagine di enciclopedia, aneddoti, versi, brandelli di giornali, è un libro sul tempo, per accorciare la distanza fra sé e il padre, per soffrire meno. È il diario di un lutto, concreto ed emotivo, intriso di un linguaggio ironico, auto-ironico, con neologismi. Per esempio quando si parla di “Alassiopatia” che era la partenza della famigliola Magrelli per le vacanze ad Alassio, in Liguria. Niente di più triste in macchina con i genitori davanti a discutere e i due figli sul sedile posteriore ad ascoltare. Un libro necessario, da leggere non tanto e non solo per il caso specifico della relazione genitoriale e della sua eredità ma per gli insegnamenti e le riflessioni sul vivere che ne possiamo trarre. Un romanzo che rievoca malattia e dolore, ma è anche capace di emanare un senso liberatorio, quando l’autore ritrova le agende del padre e si ritrova sbalordito nella sua mancanza di interesse, nel constatare che non gli importa nulla degli archivi, e prova nausea per i documenti. Vorrei essere giunto a tanta saggezza e provare solo nausea al tentativo di analisi (inutile), di tutta la vicenda berlusconiana, nel momento in cui, per una reato minore, il Caimano rischia davvero tutto e mentre lui, B come lo chiama Ferrara, rinuncia ai termini di prescrizione, ipotesi inizialmente valutata dalla difesa e al centro di contrasti giurisprudenziali (secondo alcune interpretazioni delle norme in vigore, non sarebbe possibile rinunciare alla prescrizione prima che il reato sia effettivamente prescritto), l’attenzione ora e’ tutta puntata sul ricalcolo dei termini che il giudice relatore, Amedeo Franco, deve effettuare e che saranno resi noti in udienza, mentre sembra da escludere uno stralcio della sua posizione e palese che uno slittamento di un mese sposterebbe di poco la questione: il veerdetto arriverebbe prima di ottobre e con tutta probabilita’, si rimarrebbe davanti alla sezione feriale.
Inutili è la rilettura archivistica dei fatti se non se ne esaminano i contenuti ed i profili. Lo ha fatto Magrelli e già da tempo (era il 2011), con il pamphlet “Il Sessantotto realizzato da Mediaset” (sottotitolo: “Un dialogo agli Inferi”) in cui non solo ci dice che abbiamo più bisogno di poeti che di economisti (come sapevano Luigi Einaudi e Raffaele Mattioli), ma anche che Berlusconi è il parto di una società che è passata dalla utopia alla distopia, il prodotto delle nostre illusioni che si sono illuse nel dire che potessero bastare i tecnici e gli economisti per far tornare questo paese un paese normale. A differenza di Pino Carria che su Il Fatto Quotidiano, il 31 dicembre 2011, scriveva che “Berlusconi è invecchiato di colpo”, perché (argomentava), un tempo spadroneggiava con la sua banda di strada sempre recitando lo stesso copione di imminenti opere pubbliche, future riforme, improrogabili tagli fiscali, urgenti liberalizzazioni, bastandogli affacciarsi dentro tutti gli schermi della Nazione per intravedere il traffico da shopping, le discoteche e i ristoranti pieni, Magrelli aveva intuito che l’ipnosi collettiva ancora durava e lo teneva in salvo ed il collettivo risveglio era solo una illusoria fesseria vergata da giornalisti e giornali. Senza di lui il centro-destra è allo sbando, anzi non esiste e non esiste neanche il centro-sinistra, che senza l’antiberlusconismo non riesce a tracciare alcuna via. E non esiste forse la Nazione, frutto di un padre che ha insegnato che è lecito il bene individuale ed il consumo a scapito di tutti, perché, in fondo, questa è la pasta che ci compone come figli.
In questo suo ultimo romanzo, superfetazione non superflua, ma operazione di concepimento sopra e di nuovo, Magrelli ha raccolto appunti sul padre preziosi fogliettini che diventano il bandolo di una infinità di storie, un affresco, il fil rouge di una vita, che se non è proprio insieme, quantomeno è parallela alla sua.
Nato a Roma nel 1957, Valerio Magrelli, traduttore, saggista e professore ordinario di Letteratura francese all’Università di Cassino. Collabora alle pagine culturali de “La Repubblica”. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni in versi e in prosa e l’Accademia nazionale dei Lincei, nel 2002, gli ha attribuito il Premio Feltrinelli per la poesia italiana.
Dopo aver letto (con crescente ammirazione) questo suo ultimo romanzo, mi è tornata la voglia di rileggere “Invasioni controllate”, che è una conversazione sinceramente curiosa dell’Emanuele scrittore con il padre Mario. Su di lui, la famiglia, la madre, la loro vita, la sorella, il mestiere del padre, la teoria e la pratica psicanalitica di derivazione junghiana, un dialogo aperto tra un genitore il suo diretto discendente, senza schermi, rivendicazioni, accuse o retro-pensieri. Verrebbe da dire, forse, proprio e anche perché per Emanuele la data di nascita fa la differenza con tutti gli altri (se nel ’68 aveva quattro anni, nel ’77 ne aveva tredici, ancora pochi); e pure per Mario, anche se in questo caso la sua personale biografia (e sensibilità) può aver costituito un vantaggio per il figlio. Nel caso specifico, ma in quello generale non è mai (o affatto) detto. E infatti la prima domanda che Emanuele rivolge al padre indaga un punto nodale: «Quando un analista mette su famiglia, non è spaventato dall’evocare uno dei più terribili fantasmi di Freud, quello del “romanzo familiare del nevrotico”»? Ma anche quella che segue qualche pagina più in là, non è da meno: «So che può suonare come una domanda retorica, ma è stato difficile essere un padre per te?». È un cambio di prospettiva: non essere io figlio tuo, ma essere tu padre, di me, di mia sorella. Al padre, il figlio Trevi riconosce persino di essere in famiglia “l’unica persona ordinata” e quando torna sulla vita familiare, con estrema tranquillità confessa di voler capire se l’attitudine dello psicologo, le sue abitudini mentali e i suoi criteri di verità influiscono o meno sulla sfera dei rapporti intimi.
E mi sono reso conto che è servito da preparazione a “Qualcosa di scritto”, finalista allo strega dello scorso anno, che gioca sul confine tra il romanzo e il saggio critico e che unisce alla più raffinata erudizione un’intensa carica umana, con l’obiettivo finale che è la ricostruzione di un “momento basilare”, matrice su cui si struttura la grande opera incompiuta di Pier Paolo Pasolini, il romanzo-poema “Petrolio” ed il tentativo di porre luce sul concetto di “iniziazione”, un concetto che in Pasolini si carica di attributi misterici così radicati da renderne impossibile la semplice identificazione, lasciando libero spazio alle più diverse interpretazioni.
E mi trovo d’improvviso illuminato da un concetto compreso: Pasolini, come Trevi, Siti e Magrelli, resistono al tentativo di “trasformare tutta la letteratura in narrativa” e, ancora, “rendere omogenei lo scrittore e il suo lettore”.

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