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“Quando eravamo vittime” secondo D’Amicis

“Quando eravamo vittime” secondo D’Amicis

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(Di Carlo Di Stanislao) Edito da Minimun fax, la piccola casa editrice fondata nel 1993 da Marco Cassini e Daniele di Gennaro, dopo l’esperienza di una rivista diffusa a mezzo fax, da cui il nome, con l’adesione di firme come Dacia Maraini, Dino Verde, Stanislao Nievo e Goffredo Fofi, “Quando eravamo vittime” è il quarto romanzo di Carlo D’Amicis, voce di Fahrenheit e grande autore italiano, che qui si produce in un omaggio, una restituzione di attenzione al pamphelt spietato e sconvolgente, che mette in discussione le logiche umane, incentrato sul rapporto tra civiltà e naturalità e nasce da due domande: “Cosa è naturale? Cosa è superficiale?” e ci precipita in un mondo storicamente indefinito, forse postumo, forse post-catastrofico come La strada di McCarthy (o prima ancora La peste scarlatta di London), dove una comunità tribale di cacciatori dotati di armi moderne ma privi di nomi, se non quelli dei loro animali totemici, vive all’interno di una vasta zona selvaggia chiamata “il cerchio” che nessuno di loro ha mai varcato; i cacciatori bestemmiano nel bosco, bevono birra fatta in casa, sono brutali, non conoscono la vergogna e non possiedono nulla oltre a fatiscenti abitazioni e vestiti di pelle animale. Dal fiume, tuttavia, giungono tracce di un mondo diverso: rifiuti, oggetti sconosciuti che il fabbro fonde per ricavarne proiettili, finché un giorno, oltre ai rottami di quella che immaginiamo come una remota civiltà industriale molto simile alla nostra, un elemento nuovo penetra nel mondo primitivo dei cacciatori, un abitante della zona esterna al cerchio che misteriosamente condurrà allo sfacelo il chiuso, violento ed equilibrato universo tribale. Un romanzo che presto assume le sembianze di allegoria, dove il dovere (e piacere) dell’interpretazione è ampiamente consegnato al lettore, come tradizione novecentesca richiede, da Kafka in giù. In questo splendido libro, traspare una critica amara di molti aspetti della postmodernità e soprattutto del micidiale mix di welfare-affluenza-criminalità-corruzione che affligge la società attuale e nello stesso è evidente una grande compassione nei confronti dei marginali, come, ad esempio, in “Coyote” di Melville o in “No Regrets Coyote” di Jonhn Dufresne. Sono passati quattro anni da “la battuta perfetta”, sempre edito da Minum fax, in cui D’Amicis, attraverso la storia di un padre e un figlio (che a sua volta sarà padre), ci raccontava la rivoluzione televisiva italiana e il cambiamento nella società che essa ha causato: dalla missione pedagogica della Rai degli anni  Cinquanta e Sessanta fino alla tv commerciale di Berlusconi di cui Canio diventa addirittura fidato (sfigato?) consigliere. Ed ora, in un tempo sospeso, in questo nuovo romanzo-saggio, continua, dietro la trama o le trame, a dirci che anche il soggetto più isolato e inattuale resta un animale sociale, non esistono storie, per quanto moderne, prive di un legame col passato e l’individuo e la massa, la contemporaneità e la storia, sono i quattro punti cardinali all’interno dei quali ogni scrittore dovrebbe tracciare la sua mappa. Ciò che preoccupa l’autore, palermitano, classe 1964, continua ad essere l’autonomia del pensiero, in società falsamente democratiche in cui è concessa la libertà di espressione, ma in cui tutti sono schiavi di un pensiero unico e dominante, con comunicativi sempre più ristretti, per chi intenda ragionare con la propria testa.

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