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Torce umane per un Tibet libero

Torce umane per un Tibet libero

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Sentiamo, talvolta, il bisogno
di essere un punto nel cosmo
che ascolta, in silenzio,
le vere parole,
soffiate dal vento,
che penetra dentro la carne
e ubriaca la mente,
là in alto, sul Tibet.
E li, comprendiamo
che ciò che cerchiamo
è dentro di noi
Sentiamo, talvolta, il bisogno
di essere un punto nel cosmo
che ascolta, in silenzio,
le vere parole,
soffiate dal vento,
che penetra dentro la carne
e ubriaca la mente,
là in alto, sul Tibet.
E li, comprendiamo
che ciò che cerchiamo
è dentro di noi”

Pippo Di Noto, Tibet

(di Carlo Di Stanislao) – Nove monaci tibetani, di cui cinque nell’ultimo mese, si sono immolati appiccandosi il fuoco, per protestare contro l’occupazione cinese del Tibet e chiedendone l’indipendenza e il ritorno del Dalai Lama. L’ultimo di tali sacrifici, ieri, con protagonista una suora di 20 anni, Tenzin Wangmo, che si è data fuoco fuori da un convento nella nella prefettura di Aba, zona a prevalenza tibetana nella provincia sudoccidentale del Sichuan, centro nevralgico della protesta contro il governo centrale di Pechino. La donna, avvolta dalle fiamme, ha camminato per strada per circa otto minuti, cantando e urlando slogan anticinesi e in favore del Tibet libero. La sua morte giunge a sette mesi di distanza dal gesto simile compiuto dal monaco tibetano Phuntsog, di 21 anni, che si diede fuoco fuori dal monastero Kirti. In seguito a quell’episodio, le forze di sicurezza hanno tenuto in detenzione circa 300 monaci per un mese. I gesti di auto-immolazione e le proteste danno l’idea di come stia montando la rabbia contro il governo centrale di Pechino. I gruppi per i diritti umani sostengono che la rivolta possa portare ad una repressione ad Aba, dove la violenza è scoppiata nel marzo del 2008 quando monaci buddisti e altri tibetani fedeli al Dalai Lama, loro leader religioso esiliato, si sono scontrati con la polizia e con l’esercito. Sabato scorso, nel giorno degli “indignati”, oltre 200 persone hanno sfilato nel centro di Tokyo, esponendo striscioni con la scritta “Mai più nucleare” e “Tibet libero”. Per secoli il Tibet è stato un paese unito, libero e indipendente, come attestato da ben tre risoluzioni approvate dalle Nazioni Unite nel 1959, 1961 e 1965, sfortunatamente rimaste lettera morta. E’ un paese incomparabile, ricco di una tradizione di saggezza millenaria meravigliosamente incarnata dal XIX Dalai Lama, la cui lotta non-violenta, che è anche quella di tutto un popolo, è stata premiata nel 1989 con il Premio Nobel per la pace. Nel 950, l’esercito cinese invade il Tibet e rapidamente se lo annette.
Nel 1959 il Dalai Lama, prima autorità del paese, è costretto all’esilio. Non potendo far accettare alla popolazione il ritorno forzato alla “madre patria”, le forze d’occupazione hanno commesso numerosi e orribili atti di barbarie. Gli ultimi anni sono stati segnati da continue offese al popolo tibetano e alla sua cultura. Si stima che circa 2 milioni di tibetani siano morti tra il 1950 e il 1980, in conseguenza dell’occupazione cinese. Nel corso della famigerata “rivoluzione culturale” (1966-1976), seimila templi, cioè la quasi totalità dei luoghi di culto e una miriade di tesori artistici sono stati distrutti. Il punto di svolta nella storia del Tibet fu nel 1949, quando l’ esercito di liberazione popolare della Cina per la prima volta entrò in Tibet.Dopo aver sconfitto il piccolo esercito tibetano, il governo Cinese nel 1951, impose al governo tibetano il cosiddetto accordo per la liberazione pacifica del Tibet. Essendo stato firmato sotto costrizione, l’accordo, in base al diritto internazionale, non era valido. La presenza di 40.000 soldati nel Tibet, la minaccia della occupazione immediata di Lhasa e la prospettiva della cancellazione totale dello Stato tibetano, non lasciavano molte scelte ai tibetani. In conseguenza di una aperta resistenza Tibetana all’ occupazione cinese ci fu un aumento della repressione cinese, comprendente la distruzione di edifici religiosi e l’arresto di monaci e di altri leaders di comunità. Nel 1959 i moti popolari culminarono in dimostrazioni di massa a Lhasa.La Cina rispose uccidendo 87.000 tibetani. Nel 1963 il Dalai Lama ha promulgato una Costituzione per un Tibet Democratico, che è stata applicata con successo, per quanto possibile, dal Governo in esilio. Nel Tibet la persecuzione religiosa, le gravi violazioni dei diritti umani, la distruzione sistematica degli edifici religiosi e storici da parte delle autorità occupanti non sono riuscite a soffocare la volontà del popolo tibetano di resistere alla distruzione della propria identità nazionale. Nel corso dei suoi 2000 anni di storia il Tibet ha subìto qualche influenza straniera solo per brevi periodi: pochi paesi oggi indipendenti possono vantare un primato così importante. Molti paesi nel corso dei dibattiti all’O.N.U. hanno fatto dichiarazioni di riconoscimento dello status indipendente del Tibet. Dal punto di vista giuridico a tutta’ oggi il Tibet non ha perso il suo essere Stato. Si tratta di un paese indipendente sotto una occupazione illegale. Il Governo cinese non ha mai sostenuto di aver acquisito la sovranità sul Tibet in base ad una conquista. La Cina infatti riconosce che l’uso della minaccia della forza, l’imposizione di un trattato iniquo o la persistente occupazione illegale di un paese, non possono mai garantire ad un invasore il titolo legale sul territorio. Le sue pretese si basano soltanto su una supposta sottomissione del Tibet ad alcuni dei più potenti governanti stranieri della Cina nel 13^ e 18^ secolo. Inoltre il Tibet è oggetto di una progressiva distruzione ecologica, con una politica di sfruttamento del territorio che ha portato lo sconvolgimento di vaste aree del Paese delle Nevi, distruggendo il suo patrimonio naturale. Secondo una teoria cara a pensatori come Emanuele Severino ed Umberto Galimberti viviamo nel tempo del Predominio della Tecnica. La Tecnica da mezzo si sta trasformando in fine, assoggettando alla propria volontà di potenza tutto l’agire umano. Sempre secondo questa linea di pensiero, il crollo del regime sovietico è stato generato in primo luogo dal collasso del suo Potere Tecnico, completamente sbaragliato da quello degli Stati Uniti. E’ per questo che dobbiamo capire che la posta in gioco in Tibet va oltre la libertà dei tibetani e riguarda direttamente tutti noi ed il nostro futuro. Tornando alla cronaca, domenica, sempre nel Sichuan, la polizia cinese ha aperto il fuoco e ferito due tibetani domenica scorsa durante una manifestazione di protesta, ferendo due persone, sulla cui sorte non si sa nulla. Il Sichuan, che significa “Terra dell’abbondanza, è una delle più grandi province cinesi, avendo una superficie di circa 485,000 km2. La sua popolazione ammonta a 85,000,000 di abitanti e vi sono più di 50 le minoranze etniche riscontrate. I gruppi più numerosi sono, oltre ai Cinesi Han, i Tibetani, gli Yi, i Qiang, gli Hui ed i Miao. Il capoluogo è Chendu, con una storia di almeno 2000 anni nella zona di sud-est della provincia, circondata da monti, con una antichissima scuola di Medicina Tradizionale, che ha tributato allo scrivente, nell’ormai lontano 1993, un diploma di Professoe Onorario in Medicina Cinese. La parte occidentale della provincia è montagnosa, con vette che raggiungono i 7590 m come il monte Gongga e abitata da tibetani dediti alla pastorizia e aII’allevamento. Su una delle ultime propaggini delle montagne tibetane si erge il grande santuario buddhista del Monte Emei (3099 m) con 75 templi sparsi sulla montagna abitati un tempo da monaci e meta di uno dei pellegrinaggi più popolari della Cina. Come ricordava in un articolo intitolato “La rivolta dimenticata” il Riformista il 21 aprile scorso, l’intera contea di Ngaba, oggi parte della regione dello Sichuan ieri della provincia tibetana dell’Amdo, dove si trova Kirti Gonpa è teatro di numerose manifestazioni dopo che lo scorso 16 marzo un giovane monaco di nome Puntsok si è dato fuoco per protesta contro l’occupazione cinese del Tibet  per morire il giorno seguente. Da allora la Polizia Armata di Pechino ha represso duramente tutti coloro, laici e religiosi, scesi nelle strade per chiedere libertà religiosa e di espressione. Il 12 aprile alcune migliaia di persone hanno frapposto una vera e propria barriera umana nel tentativo di impedire che i poliziotti entrassero nel monastero per arrestare i religiosi sospettati di “attività controrivoluzionarie” e deportare tutti quelli compresi tra i 18 e i 40 anni. Il monastero di Kirti è praticamente sotto assedio da quando il 16 marzo di quest’anno il monaco Lobsang Phuntsok morì dopo essersi bruciato vivo per protesta.  Questa terribile sequenza di suicidi e repressioni sembra allontanare sempre di più l’ipotesi di un autentico colloquio tra il Dalai Lama e Pechino. Nei giorni scorsi lo stesso leader tibetano, parlando della sua futura incarnazione, ha usato toni particolarmente duri riguardo il tentativo delle autorità cinesi di dettare legge in una materia che dovrebbe essere di sua esclusiva competenza. “Oggi gli autoritari governanti della Repubblica Popolare Cinese, che in quanto comunisti dovrebbero rifiutare i dogmi religiosi, vogliono imporre le loro scelte nell’ambito della sfera religiosa”.

Letture Consigliate

  • Dalai Lama: Il mio Tibet Libero, Ed. Apogeo, Milano, 2008

  • Di Gangi D.: Fra barbari e dei. La vera politica cinese in Tibet, ed. L’Arciere, Roma, 2008.

  • Gray M.: Tears of Blood: A Cry for Tibet, ed. Grover, New York, 2000.

  • Palden G., Tsering S.: Tibet. Il fuoco sotto la neve, ed. Sperling & Kupfer, Milano, 2006.

  • Palden G., Tsering S.: The Autobiography of a Tibetan Monk, ed. Grove Press, New York, 1997.

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