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Come l’antenna per i passeri

Come l’antenna per i passeri

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(Di Carlo Di Stanislao) “Come l’antenna per i passeri unisce in modo poetico due mondi apparentemente inconciliabili: la realtà cruda delle borgate romane e la surrealtà del mondo interiore,onirico, creando un’atmosfera stralunata e intensa che ricorda i paesaggi felliniani. Il suo protagonista sgangherato e malinconico conduce il lettore in una periferia malconcia,a volte grottesca,dove comunque,in modo imprevedibile troverà il suo approdo: una casa, un amore pronti a salvarlo. Marrocco riesce sapientemente a coniugare concretezza e follia, desolazione e abbraccio fraterno”.

Questo ha scritto la commissione del premio La Giara che, nel 2013, hanno assegnato il riconoscimento al romanzo di Marco Marrocco, 36 anni, nato a Fondi, autore Rai di 36 anni e di già vasta esperienza, laureato in filmologia, interessato soprattutto al cinema come linguaggio, autore di tre saggi su “Fellini e il doppiaggio, ed ancora degli studi “ Lo specchio in American Beauty” e Intervista con Giancarlo Giannini su Sergio Citti”, che costituiscono testo d’esame per gli studenti di Cinema presso l’Università La Sapienza dove ha ricoperto per anni il ruolo di Cultore della Materia.

Ma Marrocco è soprattutto un romanziere, uno di quelli che Orhan Pamuk definisce “Ingenui e sentimentali”, interessato, soprattutto, alla lingua, fatta per farci avanzare nelle pagine cercando di individuare con esattezza il centro del racconto, procedendo sapendo che esso emergerà gradualmente, e che l’aspetto piú entusiasmante e gratificante del lavoro di scrittura è proprio quello di scovarlo e metterlo a fuoco.

Questo “maniera” che porta il lettore non a dedurre il carattere dei protagonisti ma ad identificarsi con loro, è già evidente negli altri romanzi di Marco Marrocco, pubblicati per piccole case editrici e su internet: “Rosso Negroni”, “Olio su tela”, “La verticalità dell’anima” e “Dieci Ore, dialogo con un’anima”.

Non è un caso che quest’ultima fatica l’abbia pubblicata Rai Eri nella collana “Cinema e Fiction”, perché, si tratta, in definitiva, di una partitura, pensata come un film, con campi lungi, americani e primi piani, assolvenze e dissolvenze, in una notte-Odissea in cui due malati mentali, fuggiti da un reparto di psichiatria, attraversano una Roma sghemba e feroce, litigando e tenendosi per mano, in una vicenda che mescola Fellini e Pasolini, surrealismo fantastico ed attenzione alla umanità minuta e disperata.

Il linguaggio sorprende, nella sua capacità di unire sogno e realtà, allucinazione e cronaca dettagliata. E sorprende la storia dei due folli visionari, spinti ai margini della vita, ma che riescono, per strade diverse, a raggiungere un imprevedibile approdo, con uno dei due, Nelsono, novello Ulisse in una Roma notturna, slabbrata e feroce a conquistare la sua Itaca tra le braccia di Chiara, una prostituta sotto ricatto, riscattando non solo se stesso, ma tutti coloro che sanno guardare la realtà senza reprimere la propria inevitabile dose di follia.

A leggere il romanzo mi tornano alla mente frammenti del lungo e tormentato rapporto fra Fellini e Pasolini, a quanto, nel 1973, Pasolini scrisse nella doppia recensione ad Amarcord: al libro nato dalla sceneggiatura firmata con Tonino Guerra e, in seguito, al film, riprendendo, in ambo i casi, questo passaggio a proposito della sequenza della autostrada che si ricorda: “come un evento di una realtà accaduta in sogno, piuttosto che come un pezzo di cinema”.

E, venti anni dopo, quello che Fellini disse di Pasolini, fornendone un definitivo ritratto: “Aveva qualcosa di avido negli occhi, di attentissimo, una curiosità vivida, inesausta. La sua qualità che ho sempre apprezzato era la disponibilità ad essere un artista che assorbe, assimila, trasforma ma, nello stesso tempo, una parte del suo cervello sembrava un laboratorio preciso, attentissimo dove quello che l’artista aveva creato veniva vagliato, giudicato, in generale con un consenso. Era insieme creatore e critico acutissimo, implacabile, di quel che aveva inventato”.

Curiosità ed indomabile avidità c’è nella narrazione di Marco Marrocco, nei suoi personaggi e nei loro occhi che vedono e ci fanno vedere “un mondo o orrendamente nemico, o perdutamente dolce” una “savana piena di sabbie mobili, per penetrare nella quale necessita o la guida nera della malafede o l’esploratore bianco della razionalità”, il tutto con il mastice ed il collante della follia.

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