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Fra Hollywood e “Quadro nero”

Fra Hollywood e “Quadro nero”

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(Di Carlo Di Stanislao) Questa notte, dalle 22,50, starò incollato al televisore, sintonizzato sul Cielo canale 26, per vedermi, in chiaro e sin dal pre-show, con l’arrivo degli ospiti e alcuni speciali sugli attori, registi e film candidati, la 87° edizione della assegnazione dei premi Oscar, con Patrick Harris, il Barney Stinson della serie tv How I Met Your Mother, co-protagonista del film di David Fincher Gone Girl – L’amore bugiardo, a fare da padrone di casa e Felicity Jones, Idris Elba, Nicole Kidman, Liam Neeson, Gwyneth Paltrow, Channing Tatum, Chiwetel Ejiofor, Shirley MacLaine, Benedict Cumberbatch, Meryl Streep, Oprah Winfrey, Matthew McConaughey e Lupita Nyong’o ad annunciare i vincitori e con gli intermezzi, che si preannunciano iridescenti, di Lady Gaga, Jack Black, Rita Ora, John Legend  e Adam Levine.

Come al solito Hollywood celebrerà se stessa e lo farà nel modo migliore, tenendoci col fiato sospeso prima e con un fiume di parole a commento poi, sulla scelta, fra Boyhood, American Sniper, Grand Budapest Hotel, La teoria del tutto, The Imitation Game, Selma, Birdman Whiplash per il miglior film; fra Alejandro González Iñárritu, Richard Linklater, Bennett Miller e Wes Anderson per la regia; fra Michael KeatonBenedict CumberbatchSteve Carell, Bradley Cooper e Eddie Redmayne per il miglior attore e fra Julianne MooreReese Witherspoon,  Rosamund Pike, Felicity Jones per la migliore protagonista.

Per non parlare delle categorie minori: comprimari maschili e femminili, fotografia, sceneggiatura originale e non, scenografia e costumi, e, ancora migliore film straniero, con pronostici che si intrecciano e contraddicono e che, come al solito, alla fine non risulteranno neanche lontanamente veritieri rispetto a alle scelte dei 6000 iscritti all’Academy, tutti con diritto di voto e divisi in 17 settori, ognuno in rappresentanza di una diversa disciplina della produzione cinematografica: registi, attori, produttori, direttori della fotografia, sceneggiatori, compositori e via dicendo.

Come al solito so con il mio sarà un pronostico sbagliato: film a Birdman, regia a Anderson, miglior attore Keaton ed attrice Pey; migliore sceneggiatura originale a Richard Linklater per “Boyhood” e miglior adattamento a Jason Hall “American Sniper”.

Colonna sonora a Hans Zimmer per non cancellare del tutto “Interstellar”, montaggio a Barney Pilling per non lasciare a mani vuote un film magnifico come “Gran Budapest Hotel”, migliore fotografia a Roger Deakins, per non incorrere nella cafonaggine di scordare Angelina Joilie al suo esordio come regista di un lungometraggio milionario e dare una mano al tiepidamente accolto “Unbroken”.

Poi, per non sembrare accaniti verso Anderson e al contempo ricordare (come si fa spesso), il cinema italiano, a Milena Canonero l’Oscar per i costumi di “Grand Budapest Hotel; a Bill Corso e Dennis Liddiard quello per la scenografia, in modo da non lasciare fuori “Foxcatcher” e Stephane Ceretti, Nicolas Aithadi, Jonathan Fawkner e Paul Corbould quello per gli effetti speciali, per ricordare il costosissimo “Guardiani della Galassia”, che senza un aiuto rischia il precipizio totale al botteghino.

Credo che l’Oscar per il miglio film straniero se lo prenderà il polacco “Ida”, mentre io lo assegnerei a “Leviathan” di Andrej Zvjagincev, che riporta il cinema russo alla ribalta internazionale e che ha ricevuto varie nomination (Golden Globe, British Accademy, European Accademy e Cannes), ma nessun premio internazionale.

Come dicevo, comunque, nonostante le mie convinzioni, i premi saranno certamente altri e, come faccio ogni anno, me ne farò una ragione, e verso le 3 del mattino, spegnendo la tv, cercando qualche ora di sonno prima di tornare a lavoro, ricorderò a me stesso che sbaglio perché sono un dilettante.

E, come al solito, per riconciliarmi con Morfeo disturbato dal salto d’orario, penserò, sdraiato sul letto, a quanto diverso da quello di Hollywood è certo cinema che non ha vetrine e di cui si parla poco sui giornali e in tv e che non ha alcuna possibilità di uscire nei cinema, se non in alcune sale sparute.

Certo mi verranno in mente gli splendidi fotogrammi di “Quadro nero”, opera-video con musiche di Marco Betta e testi di Andrea Camilleri, realizzata da Roberto Andò, incentrato sulla celebre “Vucciria” di Guttuso, andata il 7 febbraio in apertura di stagione al Teatro Massimo di Palermo, con Francesco Scianna e Giulia Ando’ che danno vita ai due personaggi in primo piano nel quadro; dove Andò ricrea in modo sinestesico, con un gioco di sguardi nell’azione rallentata e un breve contatto carico di sensualità, un ambiente pieno di speranza e di vita e che ci ricorda che il cinema è soprattutto questo, al di là delle somme spese, dei lustrini e degli spettacoli di contorno.

Mi ricorderò di Umberto Curi, che insegna storia della filosofia all’Università di Padova e del suo “Lo schermo del pensiero. Cinema e filosofia”, in cui, riprendendo i principi della “Poetica” di Aristole, si chiarisce che un buon film non è fatto di soldi, ma più spesso di spunti narrativi e drammatici sulle problematiche che muovono uomini e donne nelle loro ingarbugliate relazioni: sentimenti, aspirazioni, poteri, pressioni: una memesis che ha soprattutto bisogno di ispirazione.

Ed allora, nell’ultimo barlume di coscienza prima del sonno liquido e nero, mi ricorderò di “Ore perse”, piccolo capolavoro inspiegabilmente dimenticato da una mania per il decennio dei Settanta che negli ultimi tempi ha ristampato qualsiasi sciocchezza pubblicata in quegli anni, di Caterina Saviane, genio incompreso, grande e tragico, tragicamente morto (e non poteva essere diversamente secondo von Hoffmansthal, Pasolini e Sciascia, perché in ogni punto della sua breve fu tragica ed estrema) a soli 31 anni nel 1991; perché in quel libro e in quello di poesie (“Appènna ammattìta”), da poco pubblicato in solo 200 copie

da Nottetempo, nella neonata collana di poesia diretta da Maria Pace Ottieri e Andrea Amerioa; non c’è solo una ricerca di effetti e parole, ma di sentimenti mimetici e narrativi, come accadeva per i veri scrittori e come non accade più per quelli sostenuti dalle grandi campagne pubblicitarie, con tanto di premi orientati delle grandi case editrici.

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