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Un regale week-end d’amore e d’amicizia (con nota storica e qualche considerazione)

Un regale week-end d’amore e d’amicizia (con nota storica e qualche considerazione)

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(Di Carlo Di Stanislao) Il re balbuziente Giorgio VI torna al cinema due anni dopo “Il discorso de re” di Tom Hooper,  grazie a Roger Michell, che trasporta sullo schermo un radiodramma di Richard Nelson, sulla breve visita (iniziata controvoglia) del sovrano inglese e signora, al presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt, avvenuta  nel 1939 nella piccola città natale di questi: Hyde Park (come il celebre parco londinese), sita nei pressi del fiume Hudson, legata alla necessità dei reali di chiedere il sostegno degli USA nella guerra che sarebbe scoppiata a breve.

Alle vicende pubbliche si intrecciano quelle private,  visto che Roosevelt, sempre più restio a condividere il talamo nuziale con la volitiva Eleanor, aveva sviluppato una relazione speciale con una lontana cugina di nome Margaret Suckley, soprannominata Daisy, che volle al suo fianco anche in quella particolare occasione. Questi sono gli assunti storici da cui Nelson trae spunto senza preoccuparsi necessariamente della totale veridicità, ma romanzando personaggi e comportamenti per vivacizzare la narrazione. La forza principale del film sta nella bravura degli attori, soprattutto  Bill Murray, che non ha certo bisogno di dimostrare di essere bravo, ma stavolta, chiamato a recitare in un contesto completamente diverso dal guscio protettivo dei suoi registi di riferimento (Wes Anderson, Sofia e Roman Coppola), è obbligato a una trasformazione sul piano fisico che influenza necessariamente anche la sua recitazione. Roosevelt, per chi non lo sapesse, soffriva di una malattia invalidante che lo costrinse progressivamente su una sedia a rotelle. La maggior parte del tempo libero passato con Daisy lo trascorre, infatti, guidando un’auto speciale per le strade di campagna nella valle dell’Hudson e in un moto di orgoglio accoglie Re Giorgio seduto su una sedia per evitare di essere sorretto dagli assistenti. A questa debolezza fisica corrisponde un tono sardonico e a tratti sprezzante tipico di un uomo di potere, ma che non ci aiuta a dimenticare di avere fronte il mattatore Murray che sprizza carisma fagocitando il suo personaggio. Impeccabile come sempre Laura Linney nei panni dell’ingenua Daisy, tratteggiata come una sempliciotta povera e fiduciosa che sembra non rendersi bene conto della situazione e le cui motivazioni sono (almeno nella versione di Nelson e Michell) pure e disinteressate.

Per ricostruire il periodo il regista fa riferimento al Diario di Berlino scritto da William L. Shirer, giornalista americano che trascorse gran parte del periodo della seconda guerra mondiale a trasmettere informazioni da Berlino per la CBS. Nella parte in cui nel suo resoconto di guerra racconta gli eventi del 20 luglio 1940, Shirer parla della terza vittoria di Roosevelt alle elezioni presidenziali, un evento che la stampa nazista descrisse come il risultato dell’applicazione di metodi esecrabili.

Un buon film, molto ben orchestrato, che racconta i misteri dell’amore e dell’amicizia e lo fa con garbo e proprietà.

Una notazione, infine, sul paesino di Hyde Park, risalente al XVIII secolo e che si trova a 90 km a nord di New York, nella contea di Dutchess, lungo il fiume Hudson.

Sia il cinema della che la scuola superiore portano il nome di Franklin Delano Roosevelt, il cittadino più famoso del posto nato nella tenuta della sua famiglia (Springwood) nel 1882. Eleanor, moglie di Roosevelt, ha convertito invece parte della sua residenza in una fabbrica, dove artisti e artigiani venivano istruiti e addestrati nella produzione di manufatti. Dopo che la fabbrica ha chiuso, Eleanor si è trasferita nel cottage della residenza, arredandolo con oggetti che erano stati prodotti dai suoi ex dipendenti.

Alla fine degli anni ottanta del secolo scorso,  l’allora sceneggiatore Richard Nelson visitò insieme ad un amico la residenza privata di Rhinebeck, aperta al pubblico dall’anziano proprietario, dove avvenne lo storico incontro.  La casa, con vista sul fiume Hudson, sembrava fiabesca e al tempo stesso sinistra. La struttura era fatiscente, la carta da parati si staccava dai muri e ogni cosa appariva ormai logorata dal trascorrere del tempo. Seduta da sola intenta a leggere e incurante degli stranieri di passaggio, vi era la centenaria Daisy Suckley, che sarebbe morta da lì a poco lasciando in eredità oltre alla residenza anche una piccola valigia, nascosta sotto il letto e contenente le lettere intime scambiate con il cugino Franklin Roosevelt e un diario in cui annotava nel dettaglio il loro rapporto, rimasto segreto fino alla morte.

Certamente l’intervento degli Stati Uniti in Europa nel secondo conflitto mondiale fu determinante soprattutto per la quantità dei mezzi di cui disponevano. Ma, come ricordava nel 2006, all’uscita di “Flags of our Fathers”, film dedicato da Clint Eastwood alla battaglia di Iwo Jima, la sconfitta della Germania cominciò a Stalingrado, tra la fine del ‘ 42 e gli inizi del ‘ 43, una straordinaria pagina di storia russa, con l’Armata Rossa che combatté eroicamente, sostenuta da immani sacrifici di una intera popolazione.

Ora è abbastanza curioso notare che solo J.J. Annaud  nel 2001, con “il nemico alle porte”, con un magnifico Jud Law, ci ha ricordato tutto questo, con alcune associazioni di veterani sovietici che si sentirono offese dall’immagine dell’Armata Rossa (per esempio la scena dei soldati portati al fronte come prigionieri in treni chiusi dall’esterno, quella dei soldati mandati all’assalto delle linee tedesche senza armi, la descrizione dei comandanti sovietici come despoti spietati, dei soldati semplici e dei civili come “carne da cannone”), tanto da chiedere ufficialmente il ritiro della distribuzione del film in Patria.

Ciò che maggiormente colpisce, nel panorama dei film di guerra, è l’ assenza di una produzione europea che non sia generalmente pacifista e poco patriottica. I film americani dominano il mercato (penso al caso del “Soldato Ryan”) anche perché gli europei, quando sono assetati di spirito patriottico e di glorie militari, finiscono per consumare il patriottismo e le glorie degli Stati Uniti.

Agli americani piace credere che i ‘bravi ragazzi’ vincono e i ‘cattivi’ perdono, e, nelle vicende internazionali, che i paesi ‘buoni’ vincono le guerre, e che i ‘paesi cattivi’ le perdono. In base a quest’opinione, gli americani sono portati a credere che il ruolo degli Stati Uniti nell’avere sconfitto la Germania e il Giappone ha dimostrato la giustezza dell’’American Way’ e la superiorità della nostra società e della nostra forma di governo.
Ma sarebbe più esatto dire che l’esito della guerra ha mostrato la giustezza della ‘Soviet Way’, e la superiorità, sia politica che sociale, del comunismo sovietico. In realtà, per decenni, tale superiorità ha costituito l’orgogliosa rivendicazione dei leader di Mosca. Come un libro sovietico di storia, pubblicato negli anni ’70, ha detto: ‘La guerra ha dimostrato la superiorità del sistema sociale e statale socialista sovietico… La guerra ha dimostrato inoltre l’unità politica e sociale del popolo sovietico… Ancora una volta è stato sottovalutato il significato del ruolo organizzativo e direttivo del Partito Comunista nella società socialista. Il Partito Comunista ha unito milioni di persone nella loro lotta contro gli aggressori fascisti.  La dedizione altruista dimostrata dal Partito Comunista durante gli anni di guerra ha ulteriormente cementato la fiducia, il rispetto, e l’amore che intercorrono nel popolo sovietico’

Come detto, in effetti, la Germania di Hitler venne sconfitta, innanzitutto e soprattutto, dall’Unione Sovietica. Circa il 70/80% delle forze di combattimento tedesche vennero distrutte dall’esercito sovietico sul fronte orientale. Lo sbarco del D-Day in Francia, da parte delle forze americane e inglesi, che è spesso dipinto negli Stati Uniti come un attacco cruciale contro la Germania nazista, venne intrapreso nel Giugno del 1944 – vale a dire meno di un anno prima della fine della guerra in Europa, e qualche mese dopo le grandi vittorie militari sovietiche a Stalingrado e a Kursk, che furono decisive per la sconfitta della Germania.

Quanto all’Inghilterra, nel 1940, poco dopo essere stato nominato primo ministro, Winston Churchill disse chiaramente, in due discorsi spesso citati, le sue ragioni per continuare la guerra contro la Germania. Nel suo famoso discorso denominato ‘Sangue, sudore e lacrime’, il grande leader inglese disse che se la Germania non fosse stata sconfitta non vi sarebbe stata ‘sopravvivenza per l’Impero inglese, né per tutto quello che l’Impero inglese aveva rappresentato’. Poche settimane dopo, nel suo discorso dell’’Ora più bella’, Churchill disse: ‘Da questa battaglia dipende la sopravvivenza della civiltà cristiana, la nostra stessa vita inglese e la continuità delle nostre istituzioni e del nostro Impero’.

Come suonano strane oggi queste parole! Anche ammesso che l’Inghilterra abbia presuntamente ‘vinto’, o che almeno abbia fatto parte dello schieramento vincente della guerra, l’Impero inglese appartiene ormai al passato. Nessun leader inglese oserebbe difendere oggi i risultati spesso brutali dell’imperialismo inglese, inclusi i bombardamenti e le uccisioni effettuati per mantenere lo sfruttamento coloniale di milioni di persone in Asia e in Africa. Né alcun leader inglese oserebbe oggi giustificare l’uccisione di persone per difendere la ‘civiltà cristiana’, se non altro per paura di offendere la popolazione inglese non cristiana, numerosa e in rapida crescita.

Gli Stati Uniti entrarono ufficialmente in guerra dopo l’attacco giapponese alla base navale americana di Pearl Harbor nelle Hawaii, il 7 Dicembre del 1941. Fino ad allora, gli Stati Uniti erano stati un paese ufficialmente neutrale, e la maggior parte degli americani voleva rimanere fuori dalla guerra che stava allora infuriando in Europa e in Asia. Nonostante lo status neutrale del paese, il Presidente Roosevelt e la sua amministrazione, insieme a molti media americani, spronarono il popolo americano a sostenere la guerra contro la Germania. Venne montata una campagna propagandistica su vasta scala per convincere gli americani che Hitler e i suoi ‘accoliti’, o le sue ‘orde’, stavano facendo ogni cosa in loro potere per conquistare e ‘schiavizzare’ il mondo intero, e che la guerra contro la Germania di Hitler era inevitabile.

Come parte di questo sforzo, il Presidente e altri funzionari di alto rango diffusero fantasiose menzogne sui presunti piani di Hitler e del suo governo di attaccare gli Stati Uniti e di imporre una dittatura globale.

Il record di menzogne del Presidente Roosevelt è riconosciuto persino dai suoi ammiratori. Tra quelli che hanno cercato di giustificare la sua politica c’è l’eminente storico americano Thomas A. Bailey, che ha scritto: ‘Franklin Roosevelt ha ripetutamente ingannato il popolo americano durante il periodo precedente a Pearl Harbor… Fu come il medico che deve dire le bugie al paziente per il suo bene… Il paese era irresistibilmente orientato al non-intervento fino al giorno stesso di Pearl Harbor, e un aperto tentativo di condurre il popolo in guerra si sarebbe risolto in un sicuro fallimento e in una quasi certa estromissione di Roosevelt nel 1940, con una totale sconfitta dei suoi obbiettivi fondamentali’.

Comunque, come si vede, ad inaugurare le bugie per giustificare conflitti non è stato Bush con l’Iraq di Saddam Hussein.

Nel 2008 un rapporto di 170 pagine, frutto di cinque anni di indagini, presentato dalla commissione intelligence del Senato evidenziò che, sfruttando la reazione emotiva dei cittadini americani dopo l’ 11 settembre, George Bush e Dick Cheney esagerarono ripetutamente sulla minaccia irachena creando un legame tra Al Qaeda e gli iracheni, non supportato da prove, per giustificare la guerra. E lo fecero con la complicità di Blair e de l’Inghilterra.

Ora un gran numero di senatori  democratici ha ufficialmente protestato per la parte iniziale di Zero Dark Thirty”, il film di 160 minuti che, pare, sia basato  sul materiale segreto filtrato dagli autori alla CIA, con titolo da codice delle operazioni speciali dei Navy Seal utilizzato quando l’azione si svolge in piena notte, e che descrive nei dettagli tutto il processo che portò all’uccisione di Osama Bin Laden nella città pachistana di Abbottabad; che presenta in modo crudo e diretto (nello stile della regista Kathryn Bigelow, il metodo detto “waterboarding”, tecnica di affogamento simulato difesa dall’amministrazione Bush come efficace per ottenere informazioni segrete. Secondo l’analista politico Wilfredo Amr Ruiz, il filmato è “una glorificazione della violenza istituzionalizzata”, che tenderebbe a legittimare le torture e i sequestri di persona e a far passare l’idea che ci possono essere eccezioni per violentare l’integrità e i diritti umani di qualsiasi cittadino in una società molto violenta come quella statunitense.

Dopo la presentazione di “Zero Dark Thirty”, lo scorso 18 dicembre (nelle nostre sale da oggi, 4 gennaio), un gruppo di senatori USA ha inviato una lettera ufficiale a chi ha prodotto il film, la Sony Pictures Entertainment. Nella lettera, resa pubblica questa settimana, hanno smentito che le torture ai prigionieri siano state alla base delle indagini per individuare il nascondiglio del defunto numero uno di al-Qaeda. Secondo la presidentessa del Comitato di Intelligence del Senato, la senatrice democratica Dianne Feinstein; il presidente della commissione Forze Armate del Senato, il democratico Carl Levin, e il senatore repubblicano John McCain, il film è un’opera “estremamente imprecisa e ingannevole”. Questi affermano che “il film lascia intendere chiaramente che le tecniche coercitive d’interrogatorio della CIA furono efficaci per ottenere decisive informazioni legate al nascondiglio di Bin Laden. Abbiamo controllato i registri della CIA e sappiamo che tutto ciò è inesatto” e aggiungono che il detenuto che fornì maggiori informazioni “lo fece prima di essere sottoposto a tecniche d’interrogatorio coercitive”.

Circa la vicenda di Albert secondogenito del Re Giorgio V, che nel ’37 salì al trono con il nome di Giorgio VI, essa è ora divenuta pièce teatrale diretta da Luca Barbareschi, con Filippo Dini, Ruggero Cara, Chiara Claudi, Roberto Mantovani, Astrid Meloni, Mauro Santopietro, Emanuele Vezzoli, su un personaggio complesso che recava con con sé un fardello di costrizioni infantili e un’insicurezza espressa dall’evidente balbuzie, ragione per cui venne portato da diversi dottori fino ad arrivare al logopedista australiano Lionel Logue, uomo dai metodi eccentrici e anticonformisti, che gli insegnò come superare l’incubo di parlare in pubblico. Una commedia umana, in perfetto equilibrio tra toni drammatici e leggerezze,che vede nei panni del logopedista Luca Barbareschi affiancato da Filippo Dini nel ruolo di Giorgio VI. Un capolavoro dello sceneggiatore David Seidler nato per il teatro ma trasformato, nel 2010, in una pluripremiata pellicola diretta da Tom Hooper.

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