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Una fiction costosa e banale, con riflessioni televisive

Una fiction costosa e banale, con riflessioni televisive

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Faraonica co-produzione italo-francese,  che ha coinvolto  le emittenti pubbliche RAI e France Télévisions e una formidabile équipe di scrittura, firmata dalla solita Cinzia TH Torrini, per portare in tv “La Certosa di Parma” di Stendhal, romanzo dettato d’un fiato e fortemente autobiografico, che ha segnato la storia del racconto del XIX secolo.

Protagonisti della fiction in due puntate, Rodrigo Guirao Díaz, Marie-Josée Croze, Hippolyte Girardot, Alessandra Mastronardi,  a cui si aggiunge un cast di 80 attori e centinaia di figuranti.

Come nel caso di “Piccolo mondo antico”, “Elisa di Rivombrosa” ed il western maremmano “Terra ribelle”, la Torrini cucina in salsa popolare il racconto d’epoca, con attori belli e scorci da cartolina,  dilapidando un patrimonio di 7 milioni e 900 mila euro, per un costrutto di insulse banalità.

Dice Nicolás Gómez Dávila che “la banalizzazione è il prezzo della comunicazione”, ma qui si esagera e nulla del contenuto del romanzo traspare dal piccolo schermo.

La miniserie è stata girata lo scorso anno in Italia, nei luoghi del romanzo, tra Castelli e Palazzi storici, in 52 giorni, gli stessi impiegati da Stendhal per scrivere (o forse dettare) il suo capolavoro, ma con esiti davvero profondamente diversi.

L’analisi dei personaggi è sicuramente la caratteristica più spiccata dell’opera di Stendhal,  che tutt’oggi è studiato per l’eccezionale complessità dei caratteri e delle dinamiche che guidano i rapporti tra gl’elementi descritti tra le pagine.

Ma nella fiction se ne perde ogni traccia e la vicenda è raccontata come nei cineromanzi che furono o nei rotocalchi di oggi.

Secondo grande romanzo, scritto otto anni dopo “Il rosso e il nero”, “la Certosa di Parma”, voleva essere, nell’idea di Marie-Henri Beyle, in arte Stendhal, un momento decisivo nella crisi e nel rinnovamento del sottogenere “romanzo storico”.

E certamente esso aprì la strada a tutta una serie di opere narrative che, pur non rientrando completamente nel sottogenere “romanzo storico”, rappresentano il presente o un passato molto recente come storia, come accade, ad esempio ne “Le confessioni di un italiano” di Nievo.

Ma, ben conscia, la Torrini, che proprio a causa della sua profonda novità il romanzo di Stendhal non incontrò il favore del pubblico, come accade fra l’altro anche a Nievo e a Scott; racconta in tv nel modo più piatto e banale, rendendo insulsi vicenda e personaggi, lasciando totalmente in disparte la fisionomia del romanzo sociale e la dominante funzione politica del grande francese.

La fiction della Torrini, come le sue precedenti produzioni, mina ed annulla completamente il valore poetico e letterario di un’opera, il cui l’Autore  trasfonde ogni sua esperienza di vita, ogni suo ideale. E mentre con vera mano d’artista Standhal vi traccia la lotta delle passioni, dell’ambizione, dello scetticismo cinico, compiendo un’analisi minuziosa dei sottili sentimenti e delle macchinazioni, degli intrighi e di tutte le passioni, offrendo al lettore un quadro fine, conciso, vivace e a volte alquanto satirico dell’Italia dopo il 1815; la Torrini ne fa un racconto lialico privo di contenuti e senza nessuno spessore.

E’ un peccato l’esito televisivo prodotto dalla Torrini, perché ci si guarderà bene dal leggere o rileggere un romanzo che sarebbe invece da raccomandare ai giovani, pervaso di forza giovanile ed anzi adolescenziale, che sbanca  ogni polemica contemporanea sullo specifico letterario e lavora sul linguaggio contrapposto alla funzione narrativa.

Un racconto allo stato puro, con amori, duelli, battaglie, , congiure cortigiane, avvelenamenti, attrici compiacenti, cantanti maliarde, banditi nella foresta, generosi come Robin Hood, prigionieri nelle torri, intrighi politici, cavalcate, fughe, travestimenti, meritevole di mani ben più capaci di quelle della sempre oleografica Torrini.

Nel romanzo Stendhal, con ironia, ci racconta una storia italiana piena di intrighi e passioni dove l’amore arriva sempre nel momento sbagliato e alla persona sbagliata., in un crogiuolo che sviluppa il tema della  crudeltà del tempo che passa e di come si ami diversamente a 20, a 30 o a 50 anni.

Nel fiction della Torrini, invece, il tutto è un susseguirsi di albe e tramonti e bei visi, che scivolano sullo schermo,  senza lasciare dentro alcuna traccia.

“Una più ampia informazione, una più profonda consapevolezza culturale, possono trasformare il consumatore asservito in formidabile agente collettivo di democrazia”, scriveva Alberto Bevilacqua,  ma pensando ad un tv ormai trascorsa, a quella degli sceneggiati di Sandro Bolchi e Anton Giulio Majano.

Agli inizi degli anni Venti, una figura lungimirante come il fondatore della Bbc, tale sir John Reith, indicava almeno tre compiti ineludibili cui il servizio pubblico doveva necessariamente far appello, in ogni sua trasmissione: educare, informare, intrattenere. E rimangono, perché no, ancora questi i punti cardini intorno ai quali far circolare le buone intenzioni di una televisione, quanto meno quella pubblica (anche perché sostenuta con fondi pubblici e dal canone, nonostante una cospicua evasione).

Si legge, nelle intenzioni di Reith, anche una visione pedagogica della televisione, la stessa che negli anni del “boom” ha influenzato e reso un po’ più omogeneo il linguaggio specie nelle classi meno abbienti e acculturate.

Ma, dopo gli splendidi anni sessanta e settanta, celebrati da Umberto Eco  nel suo “Diario minimo” a proposito della “Fenomenologia di Mike Bongiorno”, con l’avvento della tv commerciale, negli anni 80, tutto si livella in basso e diventa più becero e volgare.

Restano sprazzi di buona televisione, certo, programmi di televisione intelligente che cerca di carpire i lati più occulti e manipolatori di un mezzo di comunicazione tanto diffuso e familiare. Come ad esempio  “Blob” (RaiTre, ore 20:00),  che con una visione paradigmatica, cruda e realista come sa esserlo il cinema, allude ad una certa avanguardia espressiva, pur restando fedele a quanto gli appare sotto gli occhi, quotidianamente trasmesso.

E mentre talvolta “Blob” è cinema puro, è montaggio essenziale, è poetica di visioni e di musiche, talvolta di silenzi, è utopia e concretezza al tempo stesso, tutto il resto, fiction e reality soprattutto, è ciarpame per edulcorare, ipnotizzare e anestetizzare i sensi e l’intelletto.

Carlo Di Stanislao

 

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